Inter – Udinese, pulcini e orientamento scolastico

Pubblicato il Autore Marco Lazzari

Nella partita di serie A che ha aperto un lungo fine settimana calcistico, è accaduto un fatto mai successo prima in Italia e che è stato subito sottolineato dai commentatori: le due squadre che si affrontavano, Inter e Udinese, sono scese in campo nello stadio di San Siro schierando a inizio partita 22 giocatori stranieri. Nessun italiano era in campo. Così fino al 33esimo minuto del secondo tempo, quando ha lasciato la panchina ed è entrato sul terreno di gioco il primo italiano dell’incontro: si chiama Éder Citadin Martins, è nato a Lauro Müller, nello stato di Santa Catarina, nel sud del Brasile; un bisnonno veneto gli ha concesso di godere della doppia nazionalità e di giocare per la nazionale italiana.
Pallone nerazzurroChe il nostro campionato sia pieno zeppo di giocatori provenienti da ogni dove (talora veri brocchi) è un fatto noto.
La stessa Inter, che qualche anno addietro fu la prima squadra italiana a cominciare una partita schierando 11 stranieri, è programmaticamente votata alle rose infoltite da giocatori non italiani (e talora veri brocchi), in quanto nacque nel lontano 1908 per volontà di ex dirigenti del Milan desiderosi di fondare una compagine che non fosse vincolata, come invece aveva scelto il Milan, a bloccare il numero di stranieri in rosa e potesse “facilitare l’esercizio del calcio agli stranieri residenti a Milano”. Il suo stesso nome completo, Internazionale, la dice lunga sulla sua vocazione – e non a caso in tempi di autarchia e sciovinismo fu obbligata a ridenominarsi Ambrosiana.
Nell’attualità della globalizzazione, 22 giocatori stranieri contemporaneamente in campo non sono dunque che il compimento di un processo, ma si tratta comunque di un momento significativo.
Su un campo meno blasonato, mi è capitato qualche ora più tardi di assistere a una partita di pulcini. Anche lì, per altri motivi, spira un’aria internazionale. Segna il primo gol un “italiano”, il secondo un marocchino, il terzo un francese, il quarto un boliviano (e anche il quinto e il sesto). Bimbi di famiglie migranti, che da grandi saranno italiani come e più di Éder.
Siccome mi sto preparando per intervenire a un convegno sull’orientamento scolastico, mi viene l’idea di andare a curiosare in casa di un noto liceo cittadino: senza abbandonare il dominio sportivo, vado a dare un’occhiata al gruppo Facebook delle attività sportive del liceo e vedo fotografie di aitanti adolescenti bianchi come il latte, con cognomi squisitamente orobici. Cognomi e tinte ben diversi da quelli che, per esperienza di ricerca sul campo, capita di incontrare nei centri di formazione professionale.
Allora mi viene da chiedere che fine facciano tutti quei bimbi che alle elementari calciano il pallone sui campo dei nostri oratori e che, arrivati all’adolescenza, non compaiono negli annuari dei licei.
Dove li mandiamo a studiare, a formarsi per il futuro? Come mai al liceo troviamo solo italiani DOC? Per quale futuro prepariamo bimbi e bimbe migranti? Per diventare i nuovi Balotelli? Per essere tutte “sguattere del Guatemala”? Come ci adoperiamo per “facilitare l’esercizio” delle professioni intellettuali “agli stranieri residenti a Milano” e dintorni?
E però poi vado a spulciare tra gli iscritti a un appello di informatica al dipartimento di Lingue (è un esame obbligatorio per tutti) e conto sette cognomi non italiani tra i primi venti.
Ma allora da qualche parte nelle nostre università si forma una classe dirigente che è venuta a sciacquare in Arno (e nel Serio e nel Brembo) panni tessuti altrove. Ciò non toglie che ci si possa chiedere come mai nei licei non passa lo straniero. Come mai la scelta nella quale è maggiore l’influenza della famiglia e della scuola, cioè il passaggio dalle medie alle superiori, porti i figli di famiglie immigrate a iscriversi principalmente a scuole tecniche e professionali; mentre poi la scelta più personale, quella tra l’università e l’abbandono degli studi, li porta a continuare. Un fenomeno carsico. Non sarebbe allora meglio che accedessero a un corso di laurea come quello in lingue straniere passando per il liceo, piuttosto che per scuole tecniche o per la formazione professionale?
E allora ritorna la domanda: come orientiamo i nostri ragazzi? Come garantiamo la pari dignità sociale dei nostri ragazzi, così come predicata dall’articolo 3 della nostra Costituzione?
La scuola è aperta a tutti, come prevede l’articolo 34. E in effetti tutti ci entrano. Ma quali corridoi imboccano? Da quali porte (o finestre) escono? Come, dove e perché si disperdono? Come rendiamo effettivo il diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi?
Nelle nostre scuole di ogni ordine e grado si sta pian piano affermando un modo di fare orientamento che non vuole essere solo il consiglio dell’ultimo momento, quanto piuttosto un orientamento permanente, una forma di accompagnamento degli allievi nel loro percorso che li aiuti davvero a trovare la strada che fa per loro, andando oltre automatismi basati su preconcetti e per niente personalizzati.
In questa prospettiva, l’alleanza formativa tra scuola e famiglia può e deve trovare modi d’essere che riescano a valorizzare tutte le risorse delle quali il Paese dispone e ha bisogno, quale che sia il loro colore e le condizioni socio-economiche di partenza.
Le squadre di calcio crescono nei loro vivai campioni di ogni razza e colore, riusciranno a farlo anche le nostre scuole?

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