I rischi di Internet e gli adolescenti

Pubblicato il Autore Marco Lazzari

I rischi di Internet: di che cosa parliamo quando ne parliamo?

A che cosa ci riferiamo quando diciamo che i bambini, i ragazzi, gli adolescenti (e tutti!) sono esposti ai rischi di Internet?

Incollo qui un passaggio tratto dal mio libro Istituzioni di tecnologie didattica, edito da Studium nel 2017 (pagine 116-119), nel quale propongo un modello per l’interpretazione dei rischi della Rete.

«A questa serie di opportunità si contrappongono i rischi che ambienti di social networking comportano. Per esempio, quello della dipendenza dai social network: l’eccessiva esposizione ai social può generare dipendenze del tutto simili, nei meccanismi neuro-cerebrali coinvolti, a quelli legati all’abuso di alcol o sostanze stupefacenti; si raccomanda quindi di esporsi con moderazione, per evitare di sviluppare le cosiddette “psicopatologie dei nuovi media”[1].

Spesso chi tratta dei rischi fa riferimento a una griglia proposta come risultato di una delle ricerche del progetto EU Kids Online[2], che classifica i rischi della rete come rischi (1) sul fronte dei contenuti (si può incappare in contenuti pericolosi, offensivi, violenti, porno, razzisti, falsi, inaffidabili, …), (2) sul fronte dei contatti (violazione della privacy, rapporti con sconosciuti, bullismo, stalking, …) e (3) sul fronte della condotta (cessione di proprie informazioni personali, infrazioni del copyright, pirateria informatica, giuoco d’azzardo, disinformazione, …).

Qui vorremmo però piuttosto impostare una breve riflessione sul concetto di rischio, per capire che cosa può fare chi ha responsabilità educative per preparare i giovani a un uso corretto della rete. Il fatto è che quando in letteratura e nei media si parla di “rischi della Rete”, non sempre è ben evidente che cosa si intende per rischio, che cosa va a finire sotto l’etichetta “rischio”.

Allora, per tentare di chiarire le idee, diciamo che quando parliamo di rischi ci riferiamo alle potenzialità negative di un’azione; qualcuno compie una certa azione, che ha potenzialità negative. Queste potenzialità dipendono da tre fattori: (1) la frequenza di un evento[3], (2) la vulnerabilità del soggetto che agisce, (3) la gravità delle conseguenze.

Come possiamo applicare questo modello ai comportamenti degli adolescenti in Rete? Perché in Rete si “corrono rischi”, cioè può capitare di combinarla grossa? Come mai e a chi capitano i guai?

Fattore (1), la frequenza degli eventi: si tende a sottostimare i pericoli e la probabilità che accadano proprio a noi (“Ma no, queste cose succedono solo nei film”). Per esempio, non metto una password robusta perché tanto non succede che uno voglia usare proprio il mio account. E invece succede. Se la competenza è la capacità di applicare conoscenze e abilità in situazioni e contesti reali, in casi di questo genere il problema è che non si conosce il contesto.

Fattore (2), la vulnerabilità dei soggetti: soggetti che hanno troppa fiducia nella tecnologia, che hanno troppa fiducia in se stessi, ragazzi che si trovano a giocare un gioco da grandi e non ne hanno le difese. (“E secondo te io non me ne accorgo?”). Per esempio, io chatto con chiunque, tanto io mi accorgo se chi chatta con me è un ragazzo vero o se è un adulto che si finge tale. Anche in questo caso, la presunzione di conoscere il contesto non paga. Né basta un’allerta generica. Circola in Rete un filmato illuminante. È un esperimento di uno psicologo, che avvicina mamme al parco e chiede se i loro bimbi piccoli si allontanerebbero mai con uno sconosciuto. Le mamme dicono tutte che no, certamente il loro bimbo non si lascerebbe portare via da uno sconosciuto, perché gli è stato detto chiaramente di non accettare caramelle dagli sconosciuti. Allora il tizio chiede il permesso di parlare con il bimbo. Si avvicina con un cagnolino, glielo fa coccolare, indovina come si chiama? Ti piace? Sai che ha cinque fratellini come lui? Li vorresti vedere? E il bimbo prende per mano il tizio e parte verso i cinque fratellini… Ecco, i nostri ragazzi in chat possono essere come questo bimbo, in balìa del tizio con il cane, senza saperlo.

Fattore (3), gravità delle conseguenze: da una parte si sottostima l’ampiezza dell’audience della Rete (“Ma tanto questa cosa la vedono solo gli amici”) e dall’altra si sottostima il valore delle informazioni personali (“Io me ne frego di quello che pensa la gente”). È noto che la maggior parte delle agenzie per il lavoro, dei reclutatori di manodopera e delle aziende in cerca di personale guardano i profili social dei candidati[4]. Se la simpatica foto della sbornia di questo sabato, sommata alla simpatica foto della sbornia di sabato scorso, sommata a quella del sabato prima finiscono sullo schermo di un selezionatore, queste tre ubriacature gli suggeriscono immediatamente e senza appello che ci sono tanti altri candidati per quel posto di lavoro, per quello stage, per quella borsa di studio.

Emerge a ogni passaggio la necessità che nei ragazzi venga sviluppata la competenza digitale che permette loro di muoversi con destrezza nel mondo della Rete. Bisogna però intendersi sul significato di competenza digitale. Una decina d’anni di inchieste su tempi, luoghi e modi di uso della Rete tra gli studenti bergamaschi ci indicano con regolarità che gli studenti che si percepiscono come i più competenti sono anche quelli che indulgono più degli altri in comportamenti rischiosi (incontri al buio, invio di fotografie intime, chat con sconosciuti). Questo dipende verosimilmente dal fatto che non di competenza si tratta, ma di abilità d’uso. Forti delle loro capacità, i più abilitendono a esporsi più spesso, e quindi aumenta la frequenza degli eventi; e non lo sanno, ma sono deboli in un mondo di forti, perché osano più degli altri, convinti che la loro abilità li protegga dalle conseguenze.

Non basta saper usare gli strumenti. È abilità. Ma si deve saperla fare fruttare in situazione, in un contesto reale e irto di difficoltà. La competenza digitale nel mondo della Rete richiede non solo abilità tecnica, ma anche la capacità di mettersi in relazione con gli altri e di comunicare correttamente, la conoscenza del mondo con il quale abbiamo a che fare.

Allora qual è il problema? È che troppo spesso crediamo che basti dare qualche infarinatura tecnica ai nostri ragazzi, mentre hanno bisogno di sapersi destreggiare non soltanto sul piano della tecnologia ma anche su quello etico, relazionale e sociale[5]. Tra i compiti della scuola rientrerà allora anche quello di promuovere in ogni alunno

capacità critiche di uso consapevole degli strumenti e di sviluppare le sue capacità di impiego autonomo e creativo dei dispositivi[6].

Una felice combinazione fa sì che le famiglie possano essere alleate della scuola in questo processo. Infatti negli ultimi anni i dispositivi digitali si sono diffusi in tutte le generazioni ed è a tutti evidente che WhatsApp è ormai diventato lo strumento più usato dai ragazzi per comunicare con i genitori. Una diffusione capillare degli strumenti telematici tra gli adulti può far ipotizzare che la famiglia rispetto all’educazione digitale dei figli sia in grado di assumere oggi un ruolo diverso che nel passato, con più presenza e meno delega. Per una eterogenesi dei fini, genitori che hanno avvicinato la telematica per la prima volta per parlare in Skype con i figli grandi in Erasmus o nonni che si sono dotati di smartphone per farsi inviare le foto dei nipotini si possono ritrovare ora al posto (virtuale) giusto al momento giusto per operare efficaci interventi educativi. Si può arrivare a immaginare una sinergia tra figli e genitori, impegnati insieme in una co-costruzione di competenze che potrebbe andare addirittura oltre il classico effetto di “trascinamento al digitale”[7] delle famiglie da parte dei ragazzi.»

[1] G. Riva, I social network, il Mulino, Bologna 2010, p. 155 e ss.

[2] http://www.eukidsonline.net

[3] O, se vogliamo la sua probabilità; ma non è il caso in questa sede di avviare un discorso su frequenza e probabilità, dunque in prima approssimazione ci possiamo accontentare della frequenza.

[4] Alcuni giuslavoristi ritengono che si tratti di una violazione dell’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori. In altri paesi la fattispecie è normata; nelle more di un’improbabile regolamentazione, va ricordato che già nel 2010 il Tribunale di Monza, in una causa per diffamazione a mezzo social, sentenziava che «in definitiva, coloro che decidono di diventare utenti di Facebook sono ben consci non solo delle grandi possibilità relazionali offerte dal sito, ma anche delle potenziali esondazioni dei contenuti che vi inseriscono: rischio in una certa misura indubbiamente accettato e consapevolmente vissuto» (Tribunale Monza, Sezione IV Civile, sentenza 2 marzo 2010, n. 770).

[5] M. Ranieri, S. Manca, I social network nell’educazione. Basi teoriche, modelli applicativi e linee guida, Erickson, Trento 2013, pp. 67-68.

[6] M. Ranieri-S. Manca, Social network e dimensioni educative, in «Bricks», 4, 4, 2014, p. 13.

[7] P. Ferri, Nativi digitali, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 36.


Il saggio Istituzioni di tecnologia didattica sul sito dell’Editore Studium


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